venerdì 14 settembre 2012

Narcotico e opportunità Il doppio ruolo del web

Fonte: Corriere della Sera
Autore Edoardo Segantini

Riporto qui un breve articolo con riferimento un importante documento di Peppino Ortoleva.

La contraddizione Tra i vantaggi della generazione «nativa digitale» e i problemi della vita reale

I n un articolo intitolato «Internet blues», lo storico dei media Peppino Ortoleva riflette sulle contraddizioni di una generazione che si ritrova a essere, da un lato, teoricamente privilegiata, in quanto «nativa digitale» e, dall' altro, assai meno favorita, anzi svantaggiata, nella possibilità reali. E si chiede, forse con un filo di nostalgia per un passato di più vivaci antagonismi, come mai la gioventù non si ribelli a uno stato di cose che la danneggia nel presente e nelle prospettive. In parte, risponde Ortoleva, Internet serve a questa generazione come una sorta di narcotico che attenua i malesseri: il mileurista, com' è chiamato in Spagna il ragazzo da mille euro al mese, ha pochi soldi in tasca ma si consola grazie a un mondo a basso costo che gli permette, in qualche modo, di sfangarla: con i voli low-cost (e low-quality), l' informazione gratuita e le occasioni in rete. Una specie di Ikea dell' esistenza. Inoltre la rete gli offre la possibilità di far parte di un grande circolo di mutuo soccorso, una controcultura virtuale che può aiutarlo nei momenti di bisogno. In questa visione insomma il web è innovazione, motore ma anche grande nascondiglio. È per questo che non nasce un nuovo Sessantotto? Può darsi. E forse, anche, perché si pensa che, più della protesta, conti il darsi da fare, individualmente e con gli altri, in un mondo di cui si sono accettate fino in fondo le regole generali e di cui si vorrebbe migliorare il funzionamento. Però lontani dall' idea di distruggere tutto.

martedì 21 agosto 2012

Open source e software libero: l’innovazione etica per P.A. e cittadini

Riporto qui un articolo interessante di
Carlo Maria Medaglia e Lorenzo Orlando
Logos - Cattid Università Sapienza Roma
da  http://www.egov.maggioli.it


Tra i tanti temi legati all’innovazione tecnologica e di processo nella pubblica amministrazione, quello dell’open source vanta probabilmente il primato per numero di pubblicazioni, studi, ricerche e convegni. Parole, quindi, spesso confuse, enfatizzate, talvolta caricate di significati e potenzialità cui non sempre segue un’adeguata traduzione in “fatti”. Più volte su queste pagine si è evocata l’adozione di piani che consentano una graduale “apertura” della pubblica amministrazione sia verso i cittadini che verso se stessa: l’affermarsi del concetto di “open” trova nell’open source una sua componente primaria in grado di tradursi in interoperabilità, riuso, indipendenza e, perché no, libertà. È oramai noto come il dibattito sull’“open source” si sia spinto ben al di là della semplice questione tecnica, tirando in ballo argomenti di carattere etico legati alla responsabilità stessa della pubblica amministrazione nei confronti dei suoi utenti e dei cittadini in genere. Alla luce delle attuali difficoltà economiche nazionali (e globali) e a fronte di una spesa di acquisto e licenze d’uso di software proprietario stimata in circa 700 milioni di euro anni, la capacità di riconfigurare costi e previsioni di spesa sulla base di parametri nuovi, indipendentemente dai classici contratti di fornitura dei servizi, trova nelle soluzioni open source un passo che, se pur non obbligato, può rappresentare una più che valida soluzione.

Una storica confusione: open source e free software
Non è infrequente ascoltare amministratori e politici di turno utilizzare i termini “open source” e “software libero” (o free software) come se si trattassero di sinonimi. Pur riferendosi entrambi alla libertà di accesso al “codice sorgente” di uno specifico artefatto informatico (sia esso software o hardware), i due termini differiscono invece per alcune sostanziali sfumature di carattere etico e ideologico. Per software libero intendiamo ogni tipo di software la cui licenza d'uso consenta la libera copia, modifica e redistribuzione del programma. Il termine è stato definito da Richard Stallmann e dalla Free Software Foundation (FSF) nel 1985, e pone l'accento sulla “libertà di utilizzo” del software, appoggiandosi inoltre sul ruolo cruciale solto dalla comunità degli sviluppatori e degli utilizzatori di software libero, intesa come luogo di condivisione e crescita del sapere. Il termine “open source”, sebbene dal punto di vista pratico sia la stessa cosa del software libero, tende a concentrarsi con gli aspetti propriamente “di codice”, ponendo l'accento sui vantaggi pratici ed eliminando riferimenti etici. In informatica, open source (termine inglese che significa sorgente aperto) indica un software i cui autori (o, più precisamente, i detentori dei diritti) permettono e favoriscono il libero studio e l'apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti. Questo è realizzato mediante l'applicazione di apposite licenze d'uso. La collaborazione tra più gruppi di lavoro permette al prodotto finale di raggiungere una complessità maggiore di quanto potrebbe ottenere una singola parte. L'open source ha visto nella diffusione di Internet un potentissimo strumento di lavoro e comunicazione, perché esso ha permesso il coordinamento tra team di programmazione geograficamente distanti m impegnati sullo stesso progetto, consentendo inoltre ai team di piccole dimensioni (o talvolta costituiti da un’unica persona) di partecipare a progetti di portata internazionale. A far da differenziale tra i due tipi di software è la licenza adottata: mentre per il free software si adottano licenze di tipo OpenGPL, per l’open source si sviluppano licenze ad hoc. Già in queste due semplici definizioni si evince come, a ben vedere, l’aspetto economico (banalmente legato ai costi delle licenze d’uso e della manutenzione, spesso effettivamente inferiori rispetto agli attuali costi di mercato delle soluzioni proprietarie) non rappresenti il core del software libero: free e open, infatti, non sono sinonimo di gratuità. Ad aggiungere valore è però l’indipendenza dal fornitore, la riusabilità, la possibilità di personalizzazione, la sicurezza e il maggior controllo dei propri strumenti: tutti elementi che rivestono un ruolo chiave in un approccio d’innovazione di sistema che superi finalmente lo scenario a macchia di leopardo tipico delle esperienze d’innovazione in Italia. Un’ulteriore differenza che può esser utile sottolineare è quella che intercorre tra “progetto open source” e “prodotto”. Il progetto open source tipicamente ha come output un programma sia esso in forma di eseguibile o di sorgente, ed è corredato da una serie di risorse (repository, bug-tracking, documentazione, forum attivo, mailing-list). Il prodotto invece risponde ai problemi di una determinata classe di clienti, ai quali si offrono programmi corredati da determinati servizi (ad esempio supporto, formazione, partner certificati).

lunedì 26 marzo 2012

Le sirene di Facebook e l’idea dell’amministrazione

Fonte Saperi.Forum.PA
di  Carlo Mochi Sismondi
 07/03/2012


Qualche giorno fa un autorevole gruppo di consiglieri regionali lombardi della Lega Nord, tra cui Bossi (Renzo) e Bossetti (Cesare),  ha presentato un’interrogazione scritta all’Assessore competente per chiedere che venga impedito a tutti i dipendenti della regione l’uso di facebook e dei social network. In sé non sarebbe una notizia e al massimo potrebbe far scuotere la testa l’ignoranza profonda che l’interrogazione rivela, lì dove mischia i social network con la pirateria, “emule” e “altri generi di software per il peer 2 peer”; potrebbe poi strapparci un sorriso l’evocata potenza ammaliatrice delle nuove sirene, quando si lamenta che “molti dipendenti non riescono a resistere alla tentazione di collegarsi ai social network del momento, Facebook e Twitter”. Purtroppo la cosa è più seria ed è per questo, non tanto per prendere in giro il folklore politico di certi consiglieri, che vale la pena di parlarne.
Episodi come questo nascondono infatti un’idea di amministrazione di stampo “fordista” che decenni di riforme, di leggi, di proclami e di studi non sono riusciti ancora a debellare e che per altro in buona misura, abbandonata anche in fabbrica, sopravvive solo qui.
Mi spaventa, quindi, non tanto l’interrogazione leghista, ma la convinzione diffusa, ad essa sottesa, che la PA sia paragonabile più a una fabbrica del secolo scorso, dove quel che conta è essere al proprio posto in una catena, piuttosto che una moderna organizzazione basata sulla conoscenza. Alla stessa famiglia, seppure con minore rozzezza, appartengono infatti le tante direttive uscite in questi giorni tese a impedire momenti di confronto e scambio, a limitare la formazione, a demonizzare sin quasi a considerarlo un comportamento disdicevole, la partecipazione a convegni e seminari, a stigmatizzare, molto spesso per evitare di esaminarla e quindi di giudicarla, tutta la consulenza come clientelare.
Qui come in altri casi simili (mi vengono in mente i tornelli), l’intenzione è buona e non c’è chi non veda che ci sono stati abusi e scorciatoie per sperperi e vacanze; purtroppo però il rimedio rischia di essere peggiore del male. Sia perché asseconda un naturale isolazionismo di ciascuna struttura, che già è troppo abituata a coltivare solo il proprio orticello, sia perché è in totale controtendenza a quel “governo con la rete”, a quell’open government che è l’unico modo in cui l’amministrazione possa oggi servire al Paese.
Le tante comunità di pratica della PA si parlano su Facebook, Linkedin, Twitter e si vedono in convegni, riunioni di lavoro e barcamp più o meno formali e più o meno virtuali. I portatori di interessi, ma soprattutto i “portatori di diritti” che sono i contribuenti, cittadini e imprese, parlano sempre più con l’amministrazione attraverso i social network; è sulla rete che si scambiano esperienze e conoscenze ed è in rete che dovrà nascere prima o poi quell’intelligenza collettiva della PA che, sotto forma di una Wiki, potrà dare nuova dignità al sapere interno alla PA.
In questo contesto dinamico qualsiasi censura preventiva, fatta di lucchetti e blocchi, non può che essere anacronistica e fuorviante, ma mi preoccupa anche perché rischia di essere una scorciatoia a quello che è un punto focale della riforma dell’amministrazione, forse quello meno attuato e meno interiorizzato: la responsabilità della dirigenza.
Per immaginare di essere costretti a spegnere l’interruttore per evitare che impiegati ammaliati passino tutto il loro tempo su Facebook, dobbiamo infatti immaginare anche dirigenti colpevolmente distratti, che non sono in grado di assegnare compiti o mansioni e di giudicare sui risultati. Dopo una fase orgasmatica di rivolta (giustificata a mio parere solo in minima parte) contro le fasce di merito di Brunetta, pare oggi scesa calma piatta sulla valutazione individuale e sulla responsabilità del dirigente come principale e essenziale “valutatore”. Forse allora, invece di dire stupidaggini sui mezzi di comunicazione, è lì che dovremmo appuntare la nostra attenzione. Perché se il dirigente non è senza discernimento e non si rifiuta di sapere, vedere, giudicare, allora qualsiasi censura o proibizione preventiva è controproducente e nuoce gravemente alla sua autonoma responsabilità. Ma è sull’autonoma responsabilità di dirigenti onesti, ben preparati e ben scelti, che si regge tutta la macchina pubblica e che si può fondare qualsiasi riforma… tutto il resto è fuffa.

mercoledì 14 marzo 2012

Open source e software libero: l’innovazione etica per P.A. e cittadini

Fonte egovnews
di  Carlo Maria Medaglia e Lorenzo Orlando


L’estenuante dibattito sull’open source si è ormai spinto ben al di là della semplice questione tecnica, tirando in ballo argomenti di carattere etico legati alla responsabilità stessa della pubblica amministrazione nei confronti dei suoi utenti e dei cittadini in genere. Tra confusione sui termini, necessità di condivisione e apertura al pubblico, siamo ancora alla ricerca di un qualcosa che ci unisca. Quanto tempo serve ancora?

Tra i tanti temi legati all’innovazione tecnologica e di processo nella pubblica amministrazione, quello dell’open source vanta probabilmente il primato per numero di pubblicazioni, studi, ricerche e convegni. Parole, quindi, spesso confuse, enfatizzate, talvolta caricate di significati e potenzialità cui non sempre segue un’adeguata traduzione in “fatti”. Più volte su queste pagine si è evocata l’adozione di piani che consentano una graduale “apertura” della pubblica amministrazione sia verso i cittadini che verso se stessa: l’affermarsi del concetto di “open” trova nell’open source una sua componente primaria in grado di tradursi in interoperabilità, riuso, indipendenza e, perché no, libertà. È oramai noto come il dibattito sull’“open source” si sia spinto ben al di là della semplice questione tecnica, tirando in ballo argomenti di carattere etico legati alla responsabilità stessa della pubblica amministrazione nei confronti dei suoi utenti e dei cittadini in genere. Alla luce delle attuali difficoltà economiche nazionali (e globali) e a fronte di una spesa di acquisto e licenze d’uso di software proprietario stimata in circa 700 milioni di euro anni, la capacità di riconfigurare costi e previsioni di spesa sulla base di parametri nuovi, indipendentemente dai classici contratti di fornitura dei servizi, trova nelle soluzioni open source un passo che, se pur non obbligato, può rappresentare una più che valida soluzione.

Una storica confusione: open source e free software
Non è infrequente ascoltare amministratori e politici di turno utilizzare i termini “open source” e “software libero” (o free software) come se si trattassero di sinonimi. Pur riferendosi entrambi alla libertà di accesso al “codice sorgente” di uno specifico artefatto informatico (sia esso software o hardware), i due termini differiscono invece per alcune sostanziali sfumature di carattere etico e ideologico. Per software libero intendiamo ogni tipo di software la cui licenza d'uso consenta la libera copia, modifica e redistribuzione del programma. Il termine è stato definito da Richard Stallmann e dalla Free Software Foundation (FSF) nel 1985, e pone l'accento sulla “libertà di utilizzo” del software, appoggiandosi inoltre sul ruolo cruciale solto dalla comunità degli sviluppatori e degli utilizzatori di software libero, intesa come luogo di condivisione e crescita del sapere. Il termine “open source”, sebbene dal punto di vista pratico sia la stessa cosa del software libero, tende a concentrarsi con gli aspetti propriamente “di codice”, ponendo l'accento sui vantaggi pratici ed eliminando riferimenti etici. In informatica, open source (termine inglese che significa sorgente aperto) indica un software i cui autori (o, più precisamente, i detentori dei diritti) permettono e favoriscono il libero studio e l'apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti. Questo è realizzato mediante l'applicazione di apposite licenze d'uso. La collaborazione tra più gruppi di lavoro permette al prodotto finale di raggiungere una complessità maggiore di quanto potrebbe ottenere una singola parte. L'open source ha visto nella diffusione di Internet un potentissimo strumento di lavoro e comunicazione, perché esso ha permesso il coordinamento tra team di programmazione geograficamente distanti m impegnati sullo stesso progetto, consentendo inoltre ai team di piccole dimensioni (o talvolta costituiti da un’unica persona) di partecipare a progetti di portata internazionale. A far da differenziale tra i due tipi di software è la licenza adottata: mentre per il free software si adottano licenze di tipo OpenGPL, per l’open source si sviluppano licenze ad hoc. Già in queste due semplici definizioni si evince come, a ben vedere, l’aspetto economico (banalmente legato ai costi delle licenze d’uso e della manutenzione, spesso effettivamente inferiori rispetto agli attuali costi di mercato delle soluzioni proprietarie) non rappresenti il core del software libero: free e open, infatti, non sono sinonimo di gratuità. Ad aggiungere valore è però l’indipendenza dal fornitore, la riusabilità, la possibilità di personalizzazione, la sicurezza e il maggior controllo dei propri strumenti: tutti elementi che rivestono un ruolo chiave in un approccio d’innovazione di sistema che superi finalmente lo scenario a macchia di leopardo tipico delle esperienze d’innovazione in Italia. Un’ulteriore differenza che può esser utile sottolineare è quella che intercorre tra “progetto open source” e “prodotto”. Il progetto open source tipicamente ha come output un programma sia esso in forma di eseguibile o di sorgente, ed è corredato da una serie di risorse (repository, bug-tracking, documentazione, forum attivo, mailing-list). Il prodotto invece risponde ai problemi di una determinata classe di clienti, ai quali si offrono programmi corredati da determinati servizi (ad esempio supporto, formazione, partner certificati).

 SOFTWARE LIBERO
Ogni tipo di software la cui licenza d'uso consenta la libera copia, modifica e redistribuzione del programma
OPEN SOURCE
Software i cui autori (o, più precisamente, i detentori dei diritti) permettono e favoriscono il libero studio e l'apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti

venerdì 9 settembre 2011

È il "we-gov", una rivoluzione la democrazia nasce sul web

Fonte La Repubblica.it

Sempre più siti e social network aiutano la creazione di politiche pubbliche. Grazie a una generazione di cittadini 2.0. Petizioni, consigli e tweet. Ogni giorno. Anche in Italia di RICCARDO LUNA

IN PRINCIPIO sono stati i Moratti Quotes, citazioni fasulle ma verosimili del sindaco uscente Letizia Moratti: satira pura. Circolavano in rete alla velocità della luce. Cose tipo: "Pisapia mi ha detto che mi rubava un attimo, ma non me lo ha più restituito". Oppure, "Pisapia ha dato la laurea in medicina a Scilipoti...". Cose così. Dopo la festa per la vittoria, però, qualcosa è cambiato. Il pubblicitario milanese Paolo Iabichino ha lanciato su Twitter il tema #pisapiasentilamia, e in poche ore migliaia di persone sono passate dalle risate alle proposte per il nuovo sindaco. Che a un certo punto è pure intervenuto per dire: "Grazie d'aver colto il mio "non lasciatemi solo". Vi sto ascoltando", mentre sempre su Twitter partivano #fassinosentitorino, #berrutilasciachetiaiuti e #renzichenepensi. Voglia di partecipare, insomma.

La seconda scena avviene a Cagliari, negli stessi giorni. Marcello Verona è un giovane informatico e intuisce che il suo coetaneo Massimo Zedda, appena eletto sindaco, ha bisogno di aiuto per governare. Così va in rete, si registra su una piattaforma per discutere idee, la chiama Ideario per Cagliari e invita i cagliaritani a entrarci: "Ora tocca a noi". Nei primi cento giorni si registrano 520 idee per la città con 2.600 commenti e 12mila voti. È un bell'aiuto per Zedda. A costo zero.

La terza scena è di qualche giorno fa. A Matera una trentina di ragazzi, molto idealisti e molto preparati, stanno studiando da una settimana alla scuola estiva della Rena, un network di eccellenze italiane. Il tema è come cambiare la qualità delle decisioni politiche attraverso Internet. Con la partecipazione certo, ma si parla molto anche di Open Data, ovvero di liberare i dati pubblici in modo da generare soluzioni creative dal basso ad annosi problemi. A un certo punto uno dei partecipanti dice: "Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, ma cosa tu puoi fare con i dati del tuo paese". È Kennedy 2.0.

Se qualcuno si sta ancora chiedendo dove è finita la straordinaria onda emotiva che in primavera ha determinato gli esiti delle elezioni amministrative e dei referendum, la risposta è: sul web.

Qui, senza grandi proclami e praticamente senza soldi, si sta sperimentando una nuova forma di democrazia. Nel mondo lo chiamano Open Government, ma c'è una definizione forse più efficace: Wikicrazia. L'ha coniata Alberto Cottica, 41 anni, da Modena, che dopo una vita da musicista di successo con i Modena City Ramblers, oggi si occupa di questi temi per il Consiglio d'Europa: la Wikicrazia, secondo questa impostazione, è una democrazia potenziata dagli strumenti collaborativi della rete (i wiki) e dalla intelligenza collettiva che ha creato fenomeni come Wikipedia.

A livello accademico il fenomeno è molto studiato anche se in fondo è bastato aggiungere una "w" e passare dall'e-gov, il governo che si mette in rete per dare servizi; al we-gov, i cittadini che diventano cocreatori delle politiche pubbliche. Secondo un recente report della Elon University e del Pew Research Center sul futuro di Internet, entro il 2020 le forme di cooperazione online miglioreranno l'efficacia delle istituzioni democratiche nel rispondere alle esigenze dei cittadini. Se questa cosa non si chiama rivoluzione, poco ci manca.

In molti paesi sta già accadendo. Secondo Cottica "il primo presidente wiki della storia è Barack Obama". Più che la strategia elettorale online, in questo contesto contano i tanti strumenti attivati per favorire la partecipazione: "Le sfide che abbiamo davanti sono troppo grandi perché il governo possa farcela da solo, senza il contributo creativo del popolo americano", disse il neoeletto presidente degli Stati Uniti lanciando siti come data. gov, challenge. gov e apps4democracy. Va detto che i buoni risultati ottenuti finora sono stati inferiori alle enormi aspettative iniziali. "E le dimissioni del responsabile del progetto, Vivek Kundra, lo scorso giugno, non sono certo un bel segnale", osserva David Osimo, che si occupa di questi temi per la Commissione europea.

La staffetta dell'Open Government sembra così passata nel Regno Unito, nelle mani di David Cameron. "Stiamo cercando di mettere la tecnologia e l'innovazione al centro di tutto quello che facciamo", ha spiegato recentemente a New York a una conferenza Rohan Silva, 29 anni, assistente del premier: "Vogliamo diventare il governo più aperto e trasparente del mondo per innescare una scarica di innovazione sociale". Primo esempio, il sito dove discutere come tagliare le spese del bilancio britannico che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone.

Ma non è dai governi che arriva la Wikicrazia. È piuttosto un movimento che parte dal basso. E che ha una data di inizio certa. Nel settembre 2003, Tom Steinberg lancia Mysociety, sicuramente il progetto più ambizioso di e-democracy mai realizzato. Con una donazione iniziale di 250 mila sterline, il team di Steinberg sviluppa in pochi anni una serie di servizi tanto semplici quanto efficaci: Fixmystreet, ripara la mia strada, un applicazione per segnalare problemi e disservizi direttamente all'autorità locale (copiatissimo); theyworkforyou, un resoconto aggiornato quasi in tempo reale dell'attività di ogni singolo membro del Parlamento. E infine un modo per mandare petizioni online al premier. I servizi sono gratuiti, economici, scalabili, facili da usare. Questo il bilancio provvisorio: dopo sette anni più di 200 mila persone hanno scritto almeno una volta al premier, qualche petizione ha persino modificato decisioni già prese (il pedaggio stradale voluto e rimangiato dal governo Blair), e qualcosa come 65mila buche stradali sono state riparate.

Nel 2009, l'attenzione si sposta dal governo nazionale a quello locale. La svolta avviene ad una conferenza organizzata dal guru del web 2.0 Tim O'Reilly. "Le entrate calano, i costi aumentano: se non cambiamo il modo in cui funzionano, le città falliranno", dice in sostanza dal palco Jennifer Pahlka che qualche mese dopo lancia Codeforamerica, una fondazione per aiutare le città americane a diventare più trasparenti, connesse ed efficienti con l'aiuto del web. Lo scorso anno hanno aderito Boston, Washington e Seattle ma l'esempio più riuscito forse è Filadelfia con il sito opendataphilly. org: un gigantesco hub dove i dati comunali hanno spontaneamente generato centinaia di applicazioni utili ad i cittadini.

Codeforamerica funziona così: ad ogni città vengono inviati per un anno cinque sviluppatori. Sono in missione per conto del web, insomma. Qualche giorno fa si è chiusa la selezione per il 2012: per 26 posti hanno partecipato 550 persone da tutto il mondo. Perché lo fanno? Perché ci credono. Li chiamano "civic hackers", sono esperti di tecnologia con la passione per i valori di condivisione della rete che sognano una nuova politica.

In Italia gli antesignani sono stati i romani di Open Polis, che dal 2008 mettono online "a mano" tutti i dati dell'attività del Parlamento e monitorano le attività dei 130 mila politici eletti. Ma ora il focus è sugli strumenti per partecipare e collaborare: i social network dei cittadini, come Epart, il neonato Decorourbano e il prossimo Uptu. O anche il gioco Critical City, che usa il web per portare le persone a fare delle cose concrete nella propria città: delle missioni civiche.
Ma l'impressione è che si stia muovendo qualcosa di più grosso. Tra qualche giorno nascerà per esempio Apps4Italy, un sito dove le prime dodici regioni hanno deciso di condividere i loro dati per far generare dagli utenti "apps", applicazioni, ovvero servizi socialmente utili. È solo l'inizio: il 20 settembre ci sarà il varo ufficiale della Open Government Partnership, una alleanza promossa da Usa e Brasile con Gran Bretagna, Norvegia, Messico, Indonesia, Filippine e Sud Africa. Nove paesi sono già in lista d'attesa per entrare in questo network.

Il governo italiano è assente per ora, ma, come abbiamo visto, in questa sfida che ha l'ambizione di ridisegnare le regole d'ingaggio della politica, l'Italia c'è. 
(09 settembre 2011)

martedì 12 luglio 2011

LE ATTENUANTI DELLO SMEMORATO

Fonte il Corriere della Sera
di Luca Goldoni
6 luglio 2011

La tecnologia può esserci di aiuto ma solo in parte
G oethe scrisse che «dove viene meno l' interesse viene meno anche la memoria». Con tutto il rispetto, il supremo Maestro poteva concentrare i suoi neuroni cerebrali sui tormenti di Faust e del giovane Werther, sull' architettura gotica, sulla poesia in versi e su quella in prosa dei celebri aforismi. Voglio dire che la memoria del sommo Wolfgang non doveva immiserirsi, come la nostra, nel registrare il codice fiscale, il numero segreto del bancomat, il numero d' emergenza se abbiamo smarrito il bancomat, il codice di avviamento postale, il codice Pin del cellulare, il codice Puk da digitare se abbiamo sbagliato per tre volte il Pin, la combinazione segreta della samsonite, i codici Abi e Cab della banca, il giorno del lavaggio strade. Deinde, cara e immortale guida, a noi comuni mortali può «venir meno la memoria anche se non viene meno l' interesse» perché i massimi sistemi e i minimi si aggrovigliano nel nostro blob quotidiano. Una lettrice mi ha scritto: «Perche dimentico la trama del film tv che pur mi ha fatto piangere come un' idrante ieri sera?». Anche se privo di supporti psicologici, le ho risposto che le amnesie sono bisbetiche, non risparmiano niente e nessuno. Una volta scrissi un dramma in tre battute, stile Achille Campanile. «Ciao, ti porto i saluti di... Coso, come si chiama?... è un nostro amico... dài, quello che ha sposato... Cosa... non puoi dimenticartela... eravamo al suo matrimonio...». «Quella che suo fratello è andato in Venezuela?...» «No, quella che sua sorella ha divorziato da... lo conosci benissimo... Coso... ma dài... possibile che non ti venga in mente?». Anche il computer a volte si arrende: memoria piena. Noi non abbiamo nel cervello il tasto canc e così finisce che, con la mente evaporata come medusa al sole, ci ostiniamo talvolta a cambiar canale premendo i tasti del cellulare o a rispondere pronto portando all' orecchio il telecomando. Ho chiesto a uno psicologo: perché ricordo il numero di telefono di una bella del liceo, mentre durante una conferenza sto per dire una battuta su Clinton, e zàc, mi sparisce dal cervello il suo comunissimo nome? «Perché la bella del liceo si è installata nella tua memoria come un marchio, una cicatrice, chiamali come vuoi, mentre i nomi della nostra vita quotidiana sono ballerini, i primi a far le spese delle nostre progressive amnesie». Una ricercatrice della Bocconi mi disse che il neurologo Eric Kandel della Columbia University stava effettuando ricerche su un lumacone di mare, dotato di pochi ma grossi neuroni che funzionano in modo simile ai nostri, quelli che permettono al cervello di realizzare le sinapsi, cioè quei collegamenti che in parole povere sono i ricordi. Ogni tanto le nostre sinapsi perdono un colpo, come le extrasistole, e noi ci perdiamo nei buchi neri della memoria... Mentre a lei, maestro Wolfgang, forse non è mai accaduto di correre in una stanza e di bloccarsi all' improvviso, cosa son venuto a fare, noi tapini passiamo ore a scardinare il cervello cercando di ricostruire il meccanismo mentale che, una settimana prima, ci ha fatto metter via un oggetto in un posto «facile da trovare», e invece buonanotte. Ci viene in soccorso l' hi-tech, con i suoi regali di compleanno o di San Valentino: i mini archivi elettronici, le memorie da passeggio, la cosiddetta «vita in tasca». Ma non possiamo perdere la giornata a cliccare su queste tastierine sempre più microscopiche. È più sensato accettare l' età della smemoratezza e farne argomento di riflessione, come faccio ora con i lettori. E tutti ci rassegniamo al mesto ésprit de l' éscalier, cioè la buona battuta che ci sovviene quando scendiamo le scale dopo l' incontro. Amen. Restiamo in attesa che dal lumacone estraggano una pillola per aiutarci a ricordare il nome di Coso e Cosa. Questa che ho scritto è una proposta di attenuanti per gli infelici padri che hanno dimenticato i figlioletti in macchina. Attenzione: se avessero dovuto accompagnarli in un certo luogo proprio quella mattina, l' impegno avrebbe occupato la loro mente. Invece no: rientrava nella routine quotidiana, nell' itinerario consueto. E così cambiavano marcia e frenavano in automatico mentre i loro pensieri vagavano fra un universo di grane, il sollecito che minaccia un sequestro, l' antennista dalle promesse fasulle, il digitale terrestre che fa i quadratini, il ricorso contro la multa iniqua, l' onomastico della nonna, la mimosa per la capufficio, l' azienda che forse delocalizza. I loro cervelli, come i nostri, erano ingombri di post it gialli come quelli che pateticamente seminiamo per la casa. La subdola extrasistole mnemonica, l' imprevedibile black out di qualche attimo li ha aggrediti proprio negli affetti più cari. Non infieriamo su questi padri annichiliti. L' ergastolo se lo portano già nel cuore...

lunedì 27 giugno 2011

6 luglio, muore il Web italiano

Fonte L'Espresso
Link all'articolo

di Alessandro Longo

Il 6 luglio arriverà una delibera Agcom, sulla tutela del copyright online, e sarà una forma di censura del web, in nome degli interessi di Mediaset e delle lobby dell'audiovisivo, con il beneplacito del centro destra. E' questo l'allarme lanciato da un gruppo di associazioni (Adiconsum, Agorà Digitale, Altroconsumo, Assonet-Confesercenti, Assoprovider-Confcommercio, Studio Legale Sarzana). Avevano già fatto una campagna contro i rischi di quella delibera, ma speravano ancora di cambiare le cose. Speranze fallite venerdì, dopo aver incontrato Corrado Calabrò, presidente Agcom (Autorità garante delle comunicazioni). «Abbiamo appreso che non c'è spazio per la mediazione e che Agcom intende approvare la delibera-censura in fretta e furia», dice Luca Nicotra, segretario di Agorà Digitale, associazione di area Radicale. Nel testo definitivo dovrebbe insomma restare il principio di fondo, già presente nell'attuale bozza della delibera: Agcom avrà il potere di oscurare siti web accusati di facilitare la pirateria. Senza passare da un regolare processo, ma solo a fronte di una segnalazione da parte dei detentori di copyright.

Ma perché gridare alla censura? Come motivate quest'allarme?
«La questione alla base è che il diritto d'autore sul web ha tantissimi ambiti ed è possibile che l'industria del copyright metta in piedi interi uffici dedicati a segnalare presunte violazioni all'Autorità, come avvenuto in altri Paesi. L'Autorità non avrà i mezzi per gestire le decine di migliaia di segnalazioni che arriveranno. Sarà il Far west, ci saranno decisioni sommarie, ai danni di siti anche innocenti. Siamo il primo Paese al mondo a dare ad Agcom questo potere. Calabrò stesso ci ha detto che sa di muoversi in un territorio di frontiera... ».

Però ci si potrà difendere opponendosi all'oscuramento del sito.
«Secondo la delibera, potrà farlo il gestore del sito web, ma non l'utente che carica il contenuto in questione. Sarà un salto nel buio. Il nostro colloquio con Calabrò ci ha confermato che l'Autorità non è preparata a questo».

Perché non lo è?
«Per esempio: abbiamo detto a Calabrò che i provider Internet avranno grosse spese per rimuovere i contenuti dal web e lui ci ha risposto che non lo sapeva, che non gliel'avevano detto. Non ci ha mai risposto con numeri e criteri oggettivi alle nostre critiche».

Ma la censura avrà anche un colore politico?
«Sì e questo rende la cosa ancora più grave. Siamo in un Paese in cui la denuncia per diffamazione è facile ed efficace, per mettere a tacere media. In un sistema politicizzato come il nostro, questo nuovo potere che Agcom potrebbe aggravare il fenomeno. Dalla denuncia per diffamazione all'oscuramento d'Autorità di un sito il passo è breve».

Perché vi è sembrato che Calabrò avesse molta fretta di completare la delibera?
«In precedenza Agcom ci aveva promesso, per tenerci buoni, tanti incontri di mediazione e che il testo definitivo non sarebbe stato subito esecutivo ma che sarebbe stato messo in consultazione. Adesso invece ha deciso che già prima dell'estate, probabilmente il 6 luglio, arriverà a una delibera fatta e compiuta».

Come ti spieghi questa fretta?
«Siamo in un contesto di grossa instabilità politica. In questo momento il clima è ancora favorevole agli interessi di Mediaset, ma Agcom teme che non sarà presto così e quindi vuole chiudere in fretta la vicenda. E' un altro effetto del conflitto di interesse del presidente del Consiglio».

L'interesse delle lobby del copyright è evidente. Ma di Mediaset? E' solo quello di tutelare il proprio diritto d'autore sul web (ha denunciato in passato Google per video su YouTube, del resto)?
«Non solo. Lo scopo è forgiare il web in modo simile al mercato che loro conoscono e depotenziandone la minaccia al loro business. Hanno fatto così anche con la delibera sulle web tv».

Che farete se la delibera passa così com'è?
«Faremo ricorso al Tar del Lazio. Se necessario a Bruxelles, ma crediamo che il Tar bloccherà la delibera, che secondo molti esperti è illegittima, poiché viola diritti fondamentali del cittadino. Ma visto che ci sono forti interessi del Presidente del Consiglio a far passare quelle norme, il governo potrebbe intervenire direttamente con un decreto, in caso di blocco al Tar».