venerdì 14 settembre 2012

Narcotico e opportunità Il doppio ruolo del web

Fonte: Corriere della Sera
Autore Edoardo Segantini

Riporto qui un breve articolo con riferimento un importante documento di Peppino Ortoleva.

La contraddizione Tra i vantaggi della generazione «nativa digitale» e i problemi della vita reale

I n un articolo intitolato «Internet blues», lo storico dei media Peppino Ortoleva riflette sulle contraddizioni di una generazione che si ritrova a essere, da un lato, teoricamente privilegiata, in quanto «nativa digitale» e, dall' altro, assai meno favorita, anzi svantaggiata, nella possibilità reali. E si chiede, forse con un filo di nostalgia per un passato di più vivaci antagonismi, come mai la gioventù non si ribelli a uno stato di cose che la danneggia nel presente e nelle prospettive. In parte, risponde Ortoleva, Internet serve a questa generazione come una sorta di narcotico che attenua i malesseri: il mileurista, com' è chiamato in Spagna il ragazzo da mille euro al mese, ha pochi soldi in tasca ma si consola grazie a un mondo a basso costo che gli permette, in qualche modo, di sfangarla: con i voli low-cost (e low-quality), l' informazione gratuita e le occasioni in rete. Una specie di Ikea dell' esistenza. Inoltre la rete gli offre la possibilità di far parte di un grande circolo di mutuo soccorso, una controcultura virtuale che può aiutarlo nei momenti di bisogno. In questa visione insomma il web è innovazione, motore ma anche grande nascondiglio. È per questo che non nasce un nuovo Sessantotto? Può darsi. E forse, anche, perché si pensa che, più della protesta, conti il darsi da fare, individualmente e con gli altri, in un mondo di cui si sono accettate fino in fondo le regole generali e di cui si vorrebbe migliorare il funzionamento. Però lontani dall' idea di distruggere tutto.

martedì 21 agosto 2012

Open source e software libero: l’innovazione etica per P.A. e cittadini

Riporto qui un articolo interessante di
Carlo Maria Medaglia e Lorenzo Orlando
Logos - Cattid Università Sapienza Roma
da  http://www.egov.maggioli.it


Tra i tanti temi legati all’innovazione tecnologica e di processo nella pubblica amministrazione, quello dell’open source vanta probabilmente il primato per numero di pubblicazioni, studi, ricerche e convegni. Parole, quindi, spesso confuse, enfatizzate, talvolta caricate di significati e potenzialità cui non sempre segue un’adeguata traduzione in “fatti”. Più volte su queste pagine si è evocata l’adozione di piani che consentano una graduale “apertura” della pubblica amministrazione sia verso i cittadini che verso se stessa: l’affermarsi del concetto di “open” trova nell’open source una sua componente primaria in grado di tradursi in interoperabilità, riuso, indipendenza e, perché no, libertà. È oramai noto come il dibattito sull’“open source” si sia spinto ben al di là della semplice questione tecnica, tirando in ballo argomenti di carattere etico legati alla responsabilità stessa della pubblica amministrazione nei confronti dei suoi utenti e dei cittadini in genere. Alla luce delle attuali difficoltà economiche nazionali (e globali) e a fronte di una spesa di acquisto e licenze d’uso di software proprietario stimata in circa 700 milioni di euro anni, la capacità di riconfigurare costi e previsioni di spesa sulla base di parametri nuovi, indipendentemente dai classici contratti di fornitura dei servizi, trova nelle soluzioni open source un passo che, se pur non obbligato, può rappresentare una più che valida soluzione.

Una storica confusione: open source e free software
Non è infrequente ascoltare amministratori e politici di turno utilizzare i termini “open source” e “software libero” (o free software) come se si trattassero di sinonimi. Pur riferendosi entrambi alla libertà di accesso al “codice sorgente” di uno specifico artefatto informatico (sia esso software o hardware), i due termini differiscono invece per alcune sostanziali sfumature di carattere etico e ideologico. Per software libero intendiamo ogni tipo di software la cui licenza d'uso consenta la libera copia, modifica e redistribuzione del programma. Il termine è stato definito da Richard Stallmann e dalla Free Software Foundation (FSF) nel 1985, e pone l'accento sulla “libertà di utilizzo” del software, appoggiandosi inoltre sul ruolo cruciale solto dalla comunità degli sviluppatori e degli utilizzatori di software libero, intesa come luogo di condivisione e crescita del sapere. Il termine “open source”, sebbene dal punto di vista pratico sia la stessa cosa del software libero, tende a concentrarsi con gli aspetti propriamente “di codice”, ponendo l'accento sui vantaggi pratici ed eliminando riferimenti etici. In informatica, open source (termine inglese che significa sorgente aperto) indica un software i cui autori (o, più precisamente, i detentori dei diritti) permettono e favoriscono il libero studio e l'apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti. Questo è realizzato mediante l'applicazione di apposite licenze d'uso. La collaborazione tra più gruppi di lavoro permette al prodotto finale di raggiungere una complessità maggiore di quanto potrebbe ottenere una singola parte. L'open source ha visto nella diffusione di Internet un potentissimo strumento di lavoro e comunicazione, perché esso ha permesso il coordinamento tra team di programmazione geograficamente distanti m impegnati sullo stesso progetto, consentendo inoltre ai team di piccole dimensioni (o talvolta costituiti da un’unica persona) di partecipare a progetti di portata internazionale. A far da differenziale tra i due tipi di software è la licenza adottata: mentre per il free software si adottano licenze di tipo OpenGPL, per l’open source si sviluppano licenze ad hoc. Già in queste due semplici definizioni si evince come, a ben vedere, l’aspetto economico (banalmente legato ai costi delle licenze d’uso e della manutenzione, spesso effettivamente inferiori rispetto agli attuali costi di mercato delle soluzioni proprietarie) non rappresenti il core del software libero: free e open, infatti, non sono sinonimo di gratuità. Ad aggiungere valore è però l’indipendenza dal fornitore, la riusabilità, la possibilità di personalizzazione, la sicurezza e il maggior controllo dei propri strumenti: tutti elementi che rivestono un ruolo chiave in un approccio d’innovazione di sistema che superi finalmente lo scenario a macchia di leopardo tipico delle esperienze d’innovazione in Italia. Un’ulteriore differenza che può esser utile sottolineare è quella che intercorre tra “progetto open source” e “prodotto”. Il progetto open source tipicamente ha come output un programma sia esso in forma di eseguibile o di sorgente, ed è corredato da una serie di risorse (repository, bug-tracking, documentazione, forum attivo, mailing-list). Il prodotto invece risponde ai problemi di una determinata classe di clienti, ai quali si offrono programmi corredati da determinati servizi (ad esempio supporto, formazione, partner certificati).

lunedì 26 marzo 2012

Le sirene di Facebook e l’idea dell’amministrazione

Fonte Saperi.Forum.PA
di  Carlo Mochi Sismondi
 07/03/2012


Qualche giorno fa un autorevole gruppo di consiglieri regionali lombardi della Lega Nord, tra cui Bossi (Renzo) e Bossetti (Cesare),  ha presentato un’interrogazione scritta all’Assessore competente per chiedere che venga impedito a tutti i dipendenti della regione l’uso di facebook e dei social network. In sé non sarebbe una notizia e al massimo potrebbe far scuotere la testa l’ignoranza profonda che l’interrogazione rivela, lì dove mischia i social network con la pirateria, “emule” e “altri generi di software per il peer 2 peer”; potrebbe poi strapparci un sorriso l’evocata potenza ammaliatrice delle nuove sirene, quando si lamenta che “molti dipendenti non riescono a resistere alla tentazione di collegarsi ai social network del momento, Facebook e Twitter”. Purtroppo la cosa è più seria ed è per questo, non tanto per prendere in giro il folklore politico di certi consiglieri, che vale la pena di parlarne.
Episodi come questo nascondono infatti un’idea di amministrazione di stampo “fordista” che decenni di riforme, di leggi, di proclami e di studi non sono riusciti ancora a debellare e che per altro in buona misura, abbandonata anche in fabbrica, sopravvive solo qui.
Mi spaventa, quindi, non tanto l’interrogazione leghista, ma la convinzione diffusa, ad essa sottesa, che la PA sia paragonabile più a una fabbrica del secolo scorso, dove quel che conta è essere al proprio posto in una catena, piuttosto che una moderna organizzazione basata sulla conoscenza. Alla stessa famiglia, seppure con minore rozzezza, appartengono infatti le tante direttive uscite in questi giorni tese a impedire momenti di confronto e scambio, a limitare la formazione, a demonizzare sin quasi a considerarlo un comportamento disdicevole, la partecipazione a convegni e seminari, a stigmatizzare, molto spesso per evitare di esaminarla e quindi di giudicarla, tutta la consulenza come clientelare.
Qui come in altri casi simili (mi vengono in mente i tornelli), l’intenzione è buona e non c’è chi non veda che ci sono stati abusi e scorciatoie per sperperi e vacanze; purtroppo però il rimedio rischia di essere peggiore del male. Sia perché asseconda un naturale isolazionismo di ciascuna struttura, che già è troppo abituata a coltivare solo il proprio orticello, sia perché è in totale controtendenza a quel “governo con la rete”, a quell’open government che è l’unico modo in cui l’amministrazione possa oggi servire al Paese.
Le tante comunità di pratica della PA si parlano su Facebook, Linkedin, Twitter e si vedono in convegni, riunioni di lavoro e barcamp più o meno formali e più o meno virtuali. I portatori di interessi, ma soprattutto i “portatori di diritti” che sono i contribuenti, cittadini e imprese, parlano sempre più con l’amministrazione attraverso i social network; è sulla rete che si scambiano esperienze e conoscenze ed è in rete che dovrà nascere prima o poi quell’intelligenza collettiva della PA che, sotto forma di una Wiki, potrà dare nuova dignità al sapere interno alla PA.
In questo contesto dinamico qualsiasi censura preventiva, fatta di lucchetti e blocchi, non può che essere anacronistica e fuorviante, ma mi preoccupa anche perché rischia di essere una scorciatoia a quello che è un punto focale della riforma dell’amministrazione, forse quello meno attuato e meno interiorizzato: la responsabilità della dirigenza.
Per immaginare di essere costretti a spegnere l’interruttore per evitare che impiegati ammaliati passino tutto il loro tempo su Facebook, dobbiamo infatti immaginare anche dirigenti colpevolmente distratti, che non sono in grado di assegnare compiti o mansioni e di giudicare sui risultati. Dopo una fase orgasmatica di rivolta (giustificata a mio parere solo in minima parte) contro le fasce di merito di Brunetta, pare oggi scesa calma piatta sulla valutazione individuale e sulla responsabilità del dirigente come principale e essenziale “valutatore”. Forse allora, invece di dire stupidaggini sui mezzi di comunicazione, è lì che dovremmo appuntare la nostra attenzione. Perché se il dirigente non è senza discernimento e non si rifiuta di sapere, vedere, giudicare, allora qualsiasi censura o proibizione preventiva è controproducente e nuoce gravemente alla sua autonoma responsabilità. Ma è sull’autonoma responsabilità di dirigenti onesti, ben preparati e ben scelti, che si regge tutta la macchina pubblica e che si può fondare qualsiasi riforma… tutto il resto è fuffa.

mercoledì 14 marzo 2012

Open source e software libero: l’innovazione etica per P.A. e cittadini

Fonte egovnews
di  Carlo Maria Medaglia e Lorenzo Orlando


L’estenuante dibattito sull’open source si è ormai spinto ben al di là della semplice questione tecnica, tirando in ballo argomenti di carattere etico legati alla responsabilità stessa della pubblica amministrazione nei confronti dei suoi utenti e dei cittadini in genere. Tra confusione sui termini, necessità di condivisione e apertura al pubblico, siamo ancora alla ricerca di un qualcosa che ci unisca. Quanto tempo serve ancora?

Tra i tanti temi legati all’innovazione tecnologica e di processo nella pubblica amministrazione, quello dell’open source vanta probabilmente il primato per numero di pubblicazioni, studi, ricerche e convegni. Parole, quindi, spesso confuse, enfatizzate, talvolta caricate di significati e potenzialità cui non sempre segue un’adeguata traduzione in “fatti”. Più volte su queste pagine si è evocata l’adozione di piani che consentano una graduale “apertura” della pubblica amministrazione sia verso i cittadini che verso se stessa: l’affermarsi del concetto di “open” trova nell’open source una sua componente primaria in grado di tradursi in interoperabilità, riuso, indipendenza e, perché no, libertà. È oramai noto come il dibattito sull’“open source” si sia spinto ben al di là della semplice questione tecnica, tirando in ballo argomenti di carattere etico legati alla responsabilità stessa della pubblica amministrazione nei confronti dei suoi utenti e dei cittadini in genere. Alla luce delle attuali difficoltà economiche nazionali (e globali) e a fronte di una spesa di acquisto e licenze d’uso di software proprietario stimata in circa 700 milioni di euro anni, la capacità di riconfigurare costi e previsioni di spesa sulla base di parametri nuovi, indipendentemente dai classici contratti di fornitura dei servizi, trova nelle soluzioni open source un passo che, se pur non obbligato, può rappresentare una più che valida soluzione.

Una storica confusione: open source e free software
Non è infrequente ascoltare amministratori e politici di turno utilizzare i termini “open source” e “software libero” (o free software) come se si trattassero di sinonimi. Pur riferendosi entrambi alla libertà di accesso al “codice sorgente” di uno specifico artefatto informatico (sia esso software o hardware), i due termini differiscono invece per alcune sostanziali sfumature di carattere etico e ideologico. Per software libero intendiamo ogni tipo di software la cui licenza d'uso consenta la libera copia, modifica e redistribuzione del programma. Il termine è stato definito da Richard Stallmann e dalla Free Software Foundation (FSF) nel 1985, e pone l'accento sulla “libertà di utilizzo” del software, appoggiandosi inoltre sul ruolo cruciale solto dalla comunità degli sviluppatori e degli utilizzatori di software libero, intesa come luogo di condivisione e crescita del sapere. Il termine “open source”, sebbene dal punto di vista pratico sia la stessa cosa del software libero, tende a concentrarsi con gli aspetti propriamente “di codice”, ponendo l'accento sui vantaggi pratici ed eliminando riferimenti etici. In informatica, open source (termine inglese che significa sorgente aperto) indica un software i cui autori (o, più precisamente, i detentori dei diritti) permettono e favoriscono il libero studio e l'apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti. Questo è realizzato mediante l'applicazione di apposite licenze d'uso. La collaborazione tra più gruppi di lavoro permette al prodotto finale di raggiungere una complessità maggiore di quanto potrebbe ottenere una singola parte. L'open source ha visto nella diffusione di Internet un potentissimo strumento di lavoro e comunicazione, perché esso ha permesso il coordinamento tra team di programmazione geograficamente distanti m impegnati sullo stesso progetto, consentendo inoltre ai team di piccole dimensioni (o talvolta costituiti da un’unica persona) di partecipare a progetti di portata internazionale. A far da differenziale tra i due tipi di software è la licenza adottata: mentre per il free software si adottano licenze di tipo OpenGPL, per l’open source si sviluppano licenze ad hoc. Già in queste due semplici definizioni si evince come, a ben vedere, l’aspetto economico (banalmente legato ai costi delle licenze d’uso e della manutenzione, spesso effettivamente inferiori rispetto agli attuali costi di mercato delle soluzioni proprietarie) non rappresenti il core del software libero: free e open, infatti, non sono sinonimo di gratuità. Ad aggiungere valore è però l’indipendenza dal fornitore, la riusabilità, la possibilità di personalizzazione, la sicurezza e il maggior controllo dei propri strumenti: tutti elementi che rivestono un ruolo chiave in un approccio d’innovazione di sistema che superi finalmente lo scenario a macchia di leopardo tipico delle esperienze d’innovazione in Italia. Un’ulteriore differenza che può esser utile sottolineare è quella che intercorre tra “progetto open source” e “prodotto”. Il progetto open source tipicamente ha come output un programma sia esso in forma di eseguibile o di sorgente, ed è corredato da una serie di risorse (repository, bug-tracking, documentazione, forum attivo, mailing-list). Il prodotto invece risponde ai problemi di una determinata classe di clienti, ai quali si offrono programmi corredati da determinati servizi (ad esempio supporto, formazione, partner certificati).

 SOFTWARE LIBERO
Ogni tipo di software la cui licenza d'uso consenta la libera copia, modifica e redistribuzione del programma
OPEN SOURCE
Software i cui autori (o, più precisamente, i detentori dei diritti) permettono e favoriscono il libero studio e l'apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti